Archivio per 16 febbraio 2007

Parlando con i compagni

Commento di Alfredo Reichlin, presidente della direzione nazionale Ds, da “L’Unità” del 15 Febbraio 2007

Ricavo forti impressioni girando l’Italia per discutere della idea di costruire un nuovo soggetto politico che sia in grado di dare al paese una guida vera, politica ma anche morale.Ovunque emerge chiaramente la convinzione che è necessario un grande cambiamento. Una intera stagione della storia politica italiana si è chiusa ed è palpabile il fatto che il Paese non può più sopportare a lungo il modo attuale di essere dei partiti e della politica. La situazione è abbastanza al limite e le spese di questa distanza (venata di disprezzo) rischia di farlo fa anche il governo. La novità che vedo è la crescita della consapevolezza che se bisogna fare il “partito democratico” non è perché così hanno deciso i leader né per spostarci al centro, come teme Mussi, ma perché è giunta l’ora di mettere in campo un pensiero politico riformista forte, meno subalterno rispetto alle forze dominanti.Un pensiero che, oltre tutto, ci consenta di capire perché dopo tanto aver governato anche noi negli ultimi 15 anni l’insieme dell’organismo italiano non sembra in grado di far fronte ai mutamenti in atto nella struttura dell’economia mondiale e dei poteri e delle regole che la governano.Coloro che come chi scrive hanno sempre difeso la funzione storica della sinistra italiana ma che, al tempo stesso non si sono mai nascosta la sua debolezza altrettanto storica (non a caso è fallita la “Cosa 2” e, perfino, per certi aspetti, il suo anacronismo in quanto troppo gravata dalle culture novecentesche, cioè dalla visione di un mondo che non c’è più; ebbene proprio costoro possono dire senza essere fraintesi che per affrontare questa nuova epoca la sinistra è forza necessaria ma non sufficiente.

Però necessaria: questo si, ma se si rinnova profondamente.

La sinistra italiana non è una categoria dello spirito. Ha fatto storia in quanto attore principale di un’aspra lotta per la democrazia contro una classe dirigente particolarmente meschina che per difendere la “roba” è scesa a patti con tutti: il fascismo, i clericali, lo straniero, Berlusconi. E tutto questo ha chiamato “mercato”, “liberismo”. La sinistra è stata la protagonista del conflitto tra le classi, cruciale allora, nell’epoca dell’industrialismo. Noi abbiamo difeso questa forza e siamo tornati a darle il ruolo grande che, nonostante tutto ha svolto: quello di tenere a galla il paese e la democrazia italiana assalita dal sovversivismo della destra. Ma non siamo abbastanza forti per affrontare da soli, facendo leva solo sul nostro patrimonio, i nuovi conflitti di un mondo che ha culture, bisogni, religioni diversissime da quelle del Novecento europeo.

È naturale, quindi, che bisogna andare oltre i nostri vecchi confini. È tempo di incontrare altre culture e altri riformismi per dar vita a qualcosa di molto più forte di una alleanza elettorale e di molto più serio che un club di intellettuali riformisti “doc”. Di che sinistra parliamo se non occupiamo il terreno dei nuovi conflitti?

La globalizzazione è ben più che l’allargamento dei mercati. È l’apertura di un processo storico nuovo in conseguenza del quale gli Stati nazionali non scompaiono affatto ma la loro sovranità è attraversata e condizionata da attori che governano reti attraverso le quali passano poteri sovranazionali, interessi forti, disegni politici di dominio, insieme a tutti quei fattori immateriali che impongono valori e modi di pensare nuovi.

Qui sta il terreno dei nuovi conflitti. Perciò quando oggi si dice sinistra bisogna pensare a un campo di forze che certo fa perno ma va anche oltre le vecchie forze socialdemocratiche europee. Da questo dipende la scommessa del partito democratico. Essenzialmente dalla capacità di puntare sulle grandi ragioni che possono unire in Italia e nel mondo le forze del progresso. Perché lì, in quelle grandi ragioni stanno le forze vere e vive da rimettere in moto. L’incontro si fa a questa altezza. Non si fa al ribasso ma rendendo esplicita la grandezza della posta in gioco.

Giorni fa, incontrando con Fassino un gruppo molto autorevole di uomini della scienza e della cultura siamo partiti da una domanda abbastanza cruciale: se cioè dopo anni di distacco e di indifferenza, esistono nuove ragioni forti perché la politica torni ad avere una dimensione culturale e anche una dimensione etica. Esistono queste nuove ragioni? Il distacco è stato davvero impressionante.

Per tante ragioni. Ma, a parte l’anacronismo delle vecchie ideologie, credo abbia molto pesato quel fatto materiale e assai corposo che è la pesante contraddizione tra il cosmopolitismo di una economia globalizzata che muove le ricchezze del mondo secondo le logiche e gli interessi di chi controlla il capitale finanziario e il localismo di una politica la quale (priva, oltretutto, dei poteri del vecchio Stato) è diventata povera e autoreferenziale, e tutto sommato subalterna dato che le grandi decisioni non vengono più prese nello spazio pubblico ma altrove (banche centrali, multinazionali, poteri informali ecc). Il che spiega perché la democrazia (la vecchia tesi di Schumpeter) si sta trasformando da strumento della rappresentanza e della partecipazione (il potere e i diritti del cittadino, la libertà di scegliere i governanti) in una mezzo attraverso cui le elites regolano i rapporti tra loro. Tanto è vero che i parlamentari vengono ormai nominati dalle segreterie dei partiti e non eletti. Col popolo fuori, ridotto a folla solitaria che guarda la televisione.

Io credo che questa crisi profonda della democrazia, non soltanto italiana, è il vero segno politico delle forze che attualmente dirigono la mondializzazione. Essa ci fa capire meglio perché noi siamo arrivati a quel punto in cui non solo dobbiamo prendere atto che le culture politiche del ‘900 non hanno più gli strumenti (oltre che le idee) per leggere e governare questo passaggio d’epoca. Ma siamo costretti, in qualche modo a varcare gli steccati delle identità del passato per misurarci col futuro.

Questa è l’impresa del partito democratico. Certo, l’operazione è molto difficile e la condizione perché riesca non dipende da una noiosa disputa tutta italiana (se il riformismo debba essere un po’ più mercatista o un po’ più statalista) ma dal fatto che coloro che la dirigono siano consapevoli che fondare un partito è prima di tutto una grande operazione culturale, e di una cultura di rango europeo e mondiale.

Del resto il Pci non è pensabile senza la grande lettura fatta da Gramsci dei caratteri del Risorgimento e delle radici profonde del fascismo. E la Dc senza Sturzo (il suo appello ai liberi e forti) e senza quel pensiero cattolico-democratico che (a differenza degli ultimi papati) si pose il problema della conciliazione tra il cattolicesimo e la democrazia moderna (lo Stato democratico) e si ispirò a Maritain. Sta qui, anche oggi, la necessità di rinnovare profondamente la politica se vogliamo tornare a dare un significato alla parola “sinistra”. Dove va il mondo se la politica (la grande politica) non torna ad essere quello strumento che apre alla libertà degli uomini nuovi spazi, nuove possibilità e nuovi orizzonti, e cioè per la ragione che essa, attraverso una diversa combinazione delle forze e delle volontà, ci consente di trascendere continuamente l’esistente? Ma questa “grande politica” non richiede una forza nuova? E dove va il mondo se non viene in campo un nuovo umanesimo, un pensiero laico sulle ragioni del vivere dal momento che sono venute meno le vecchie certezze? Una nuova idea di futuro è necessaria. Senza di essa è inevitabile che le società moderne si disgreghino oscillando (come sta già avvenendo) tra un cinico consumismo tutto schiacciato sul presente, dato che cioè che costituisce il mondo è solo lo scambio economico e nuove forme di fondamentalismo religioso. Io penso che da qui nasce il bisogno di un nuovo rapporto tra etica e politica, sapendo bene però che i progetti della politica non si desumono dall’esterno, dalle fedi, ma dalla storia e dalla ragione.

Abbiamo quindi bisogno di una nuova idea di progresso che parta dalla necessità di cambiare qualcosa di profondo nella nostra visione del mondo, cercando di intenderlo sempre più come un organismo complesso, costituito da parti reciprocamente integranti in cui si moltiplicano le situazioni che possono avere ripercussioni dirette sulle condizioni di vita dell’intera umanità. È solo un accenno ma per dire che sono queste le cose che ci impongono di uscire da vecchi schemi marxisti. I conflitti di classe restano, ma, al di là di essi, altri si presentano. E riguardano il controllo delle conoscenze, l’inclusione o l’esclusione dai luoghi del sapere, i diritti di cittadinanza, il ruolo delle donne, la capacità della politica di far valere l’interesse generale. Che riguardano quindi la libertà dell’uomo moderno, quella fondamentale libertà che consiste nell’essere padrone del proprio destino.

Così io vedo il partito democratico. L’idea che si possa fare politica galleggiando sull’esistente, facendo “audience”, non funziona. Perché se è vero che l’aumento della nostra potenza ha generato complessità e incertezza, è altrettanto vero che, nell’incertezza delle previsioni, l’unica certezza diventa la nostra capacità di avere un progetto forte, di futuro, di valori positivi capaci di garantire una convivenza umana. Io credo che solo così, in questo modo, la politica può tornare a parlare al cuore delle grandi masse umane.

Potrebbe essere questo il nuovo nome di un socialismo non più solo evocativo del passato? Non lo so. So però che i nomi contano fino a un certo punto. Ciò che conta è restituire alla sinistra un pensiero lungo. Non vogliamo farlo? Vogliamo rimanere come siamo? Le risposte ai bisogni di senso le daranno i preti mentre per ciò che riguarda i sogni di felicità ci penseranno le Tv, la pubblicità, i supermercati.

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enrico berlinguer

 

 

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